Inquinanti dell’acqua sottovalutati dall’uomo

Negli ultimi anni, si è scoperto che in realtà molti più inquinanti potenzialmente pericolosi arrivano all’uomo – direttamente o indirettamente – attraverso l’acqua di quelli che erano noti in precedenza. I motivi per cui non li si era trovati in passato sono diversi.

A volte manca la genuina volontà di tutelare la salute umana – il caso delle microplastiche è esemplare in tal senso, poiché si tratta di una ricerca relativamente poco costosa – altre volte il limite è rappresentato dai costi delle analisi e dal numero di esami necessari per testare i livelli di tutti gli inquinanti tossici o sospetti cancerogeni esistenti fra le migliaia di sostanze chimiche prodotte dall’uomo.

Altre volte la spiegazione è, semplicemente, perché prima non c’erano. Alcune pratiche e/o livelli di smaltimento sono relativamente recenti, ed inoltre passano alcuni anni perché certe sostanze tossiche o cancerogene raggiungano le falde acquifere, e altri ancora perché si possano riscontrare in modo palese i danni sulla salute, come incrementi di tumori o di malattie acute e croniche.

Ecco, di seguito, tre classi importanti di inquinanti dell’acqua di falda attualmente sottovalutate anche dal punto di vista della normativa, e che invece meritano un’attenzione particolare, presente e futura.

Inquinanti organici persistenti: PCB, PAH, PFAS, diossine, etc.

I cosiddetti “inquinanti organici persistenti” (POP) sono composti organici resistenti al normale degrado ambientale attraverso processi chimici, biologici e fotolitici. A causa della loro persistenza, si bioaccumulano con potenziali impatti negativi sulla salute umana e sull’ambiente. Tendono quindi ad avere concentrazioni più elevate di altre sostanze e vengono eliminati più lentamente.

Molti POP sono attualmente usati – o lo sono stati in passato – come pesticidi, solventi, prodotti farmaceutici e prodotti chimici industriali. Per le loro caratteristiche di persistenza e tossicità sono particolarmente nocivi per la salute dell’uomo (alcuni si configurano come veleni, altri come agenti cancerogeni) e per gli animali (possono essere anche mortali per la fauna).

Sono presenti nell’acqua, nell’aria e nel suolo, e la loro propagazione è dovuta anche alle specie migratrici. Ne sono stati rilevati residui in pesci ed animali selvatici, ma anche nei tessuti, nel latte e nel sangue umani, oltre che in campioni alimentari. Il loro pericolo consiste nella crescente concentrazione negli ecosistemi acquatici e terrestri (alcuni rimangono nel terreno fino a 20 anni prima di dimezzarsi).

Fra i dodici inquinanti organici persistenti considerati più importanti, troviamo composti come l’aldrin, il clordano, il diclorodifeniltricloroetano (DDT), il diedrin, l’endrin, l’eptacloro, il mirex, il toxafene, i policlobifenili (PCB), l’esaclorobenzene, le famigerate diossine ed i furani. Fanno parte dei POP anche gli idrocarburi aromatici policiclici (PAH) e le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS).

I PFAS, in particolare, sono balzati agli onori delle cronache soprattutto in Veneto, dove hanno contaminato l’acqua potabile di tre province. Si tratta di sostanze sintetiche prodotte a partire dagli anni Settanta per rendere i materiali resistenti all’acqua. Sono usate per giacconi, tappeti, pentole antiaderenti e cartoni per gli alimenti, ma anche nell’arredamento e nella produzione di schiume antincendio.

I POP sono tipicamente composti organici alogenati, e come tali hanno un’elevata solubilità lipidica. Perciò, si bioaccumulano nei tessuti grassi. Essi esercitano i loro effetti negativi sull’ambiente tramite due processi: il trasporto a lungo raggio – che consente loro di viaggiare lontano dalla loro fonte – e la bioaccumulazione, che concentra questi composti chimici a livelli potenzialmente pericolosi.

Gli inquinanti organici persistenti entrano nella fase gassosa a determinate temperature ambientali e volatilizzano dai corpi idrici, dal suolo e dalla vegetazione nell’atmosfera, resistendo alle reazioni di rottura nell’aria, per percorrere lunghe distanze prima di essere ridistribuiti. Nell’atmosfera, possono essere presenti come vapori o legati alla superficie di particelle solide.

Le varie vie di esposizione dell’uomo agli inquinanti. (Fonte: ECHA, 2016)

Ciò si traduce nell’accumulo di POP in aree lontane da dove sono stati utilizzati o emessi, in particolare in ambienti in cui non sono mai stati introdotti, come l’Antartide e il Circolo polare artico. A causa di questa capacità di trasporto a lungo raggio, la contaminazione ambientale da POP è ampia, e per la loro resistenza al degrado rimarrà in tali ambienti per anni dopo eventuali restrizioni al loro uso.

I POP hanno una bassa solubilità in acqua, ma vengono facilmente catturati da particelle solide e sono solubili nei fluidi organici (oli, grassi e combustibili liquidi). Accumulandosi per lungo tempo nei tessuti grassi degli organismi viventi, si spostano lungo la catena alimentare, aumentando la concentrazione man mano che vengono processati e metabolizzati in questi tessuti.

L’esposizione ai POP può causare difetti dello sviluppo, malattie croniche e morte. Alcuni sono considerati cancerogeni dall’IARC. Molti POP sono capaci di perturbazioni endocrine nel sistema riproduttivo, nel sistema nervoso centrale o nel sistema immunitario. Le persone e gli animali sono esposti ai POP per lo più attraverso la dieta, per motivi professionali o durante la crescita nel grembo materno.

Per gli esseri umani non esposti ai POP attraverso mezzi accidentali o professionali, oltre il 90% dell’esposizione proviene da alimenti di origine animale, a causa del bioaccumulo nei tessuti grassi e attraverso la catena alimentare. In generale, i livelli dei POP nel sangue delle persone aumentano con l’età e tendono ad essere più alti nelle donne rispetto ai maschi.

Per gli organismi esposti a una miscela di POP, si presume che gli effetti siano additivi. Ma le miscele di POP possono, in linea di principio, produrre effetti sinergici. In tal caso, la tossicità di ciascun composto è aumentata dalla presenza di altri composti nella miscela, per cui gli effetti risultanti possono superare di gran lunga gli effetti additivi approssimati della miscela composta di POP.

Fanghi di depurazione “imbottiti”

I cosiddetti “fanghi di depurazione” derivano dal processo di trattamento delle acque reflue. In Italia, la maggior parte dei fanghi provengono da depuratori di scarichi civili, circa un terzo dalla depurazione di acque industriali e circa una quarto da aziende agroalimentari.

A causa dei processi fisico-chimici coinvolti nel trattamento, il fango tende a concentrare metalli pesanti e composti organici scarsamente biodegradabili, nonché organismi potenzialmente patogeni. Tuttavia, la normativa attuale vigente in Italia consente che essi siano mescolati a rifiuti. Le tipologie di rifiuti ammesse sono decine, alcuni dei quali pericolosissimi perché non se ne conosce la provenienza.

In Italia i fanghi sparsi sui campi sono mescolati a rifiuti vari.

Particolarmente grave – come sostiene Giuseppe Damiani, biologo del CNR – è l’inquinamento del suolo e delle falde acquifere con gli inquinanti organici persistenti di cui abbiamo parlato prima, in quanto essi sono presenti in molti dei rifiuti aggiunti ai fanghi. Vengono mescolati rifiuti della produzione di plastiche, gomme sintetiche, scarti della produzione di coloranti e di prodotti farmaceutici, etc.

Ecco perché i fanghi di depurazione “imbottiti” di rifiuti sono una delle “bombe ecologiche” di cui si vedranno gli effetti fra qualche anno, che è appunto il tempo richiesto dai componenti tossici e cancerogeni per raggiungere la falda sotterranea quando su una zona si cominciano a spandere in modo costante questo tipo di materiali, ricchi anche di saponi, lubrificanti, disinfettanti, cosmetici, etc.

La normativa rende possibile far confluire questi rifiuti nei fanghi perché si ritiene che, se rimangono sotto una certa soglia, e se vengono diluiti, possano non essere dannosi. Ma, come illustrato in precedenza, queste sostanze si accumulano, con effetti disastrosi, e possono, in linea di principio, produrre effetti sinergici che possono superare di gran lunga i semplici effetti additivi.

La presenza di una varietà di contaminanti pericolosi nei reflui (come le diossine, i furani ed il nonilfenolo, molecola largamente impiegata nel settore dei detergenti non ionici industriali o degli oli industriali, trovati dall’ISPRA) e, quindi, nei fanghi di depurazione dovrebbe – come sottolinea il chimico Attilio Bonetta – indurre a ben altra prudenza nel rilasciare autorizzazioni allo spandimento.

In realtà, anche i fanghi di depurazione non “imbottiti” con i rifiuti – come sono quelli usati negli Stati Uniti, dove circa la metà dei fanghi di depurazione trattati (circa 7 milioni di tonnellate all’anno) provenienti da impianti di acque reflue viene applicata ai campi agricoli – sono risultati non esattamente innocui.

Infatti, secondo un recente studio condotto da scienziati federali dell’USGS, i fanghi di depurazione utilizzati come fertilizzanti nelle fattorie possono lasciare tracce di farmaci da prescrizione e prodotti chimici domestici nel terreno. I risultati suggeriscono che l’uso diffuso di tali fanghi potrebbe contaminare le falde acquifere – oltre che le acque di superficie – con una varietà di sostanze chimiche.

I ricercatori dell’USGS hanno testato, ad esempio, un campo di grano del Colorado orientale che utilizzava i fanghi trattati da un impianto di trattamento delle acque reflue di Denver. Prodotti chimici in saponi antibatterici, detergenti, cosmetici, profumi e farmaci da prescrizione come Prozac e Warfarin non solo persistevano nel terreno vegetale, ma migravano verso il basso.

I ricercatori hanno cercato 57 contaminanti “emergenti” che si stanno sempre più rivelando nell’ambiente. Dieci sono stati rilevati nel terreno a profondità tra 18 e 130 centimetri 18 mesi dopo l’applicazione del fango trattato. Nessuno era presente in precedenza sul terreno del campo. Altri studi hanno trovato ormoni, detergenti, profumi, farmaci, disinfettanti e plastificanti nei fanghi trattati usati come fertilizzanti. Ma questo è il primo studio a mostrare come possono persistere e muoversi nel suolo.

Microplastiche nell’acqua di rubinetto

Una ricerca realizzata da Orb Media – un’organizzazione no-profit specializzata in giornalismo d’inchiesta – in collaborazione con studiosi della State University of New York, ha svelato la presenza di microplastiche nell’acqua potabile a livello mondiale. Una vera doccia fredda per chi credeva che la plastica finisse “soltanto” nelle acque superficiali e nella catena alimentare.

I ricercatori hanno analizzato 159 campioni di acqua potabile raccolta dal rubinetto in varie città di tutto il mondo – dunque provenienti da varie fonti – e perfino le acque della sede del Congresso Usa e della Trump Tower a New York. I risultati hanno mostrato che la contaminazione da microplastiche è ubiquitaria: in media, l’83% dei campioni risultava contaminato da invisibili fili di plastica.

Il record di acque potabili contaminate da microplastiche spetta proprio agli Stati Uniti, dove la percentuale di campioni prelevati dai rubinetto risultati contaminati da fibre ha toccato il 94%. Seguono Libano (93,8%) e India (82,4%). In Europa, in particolare in Regno Unito, Germania e Francia i tassi sono più bassi, ma comunque i residui di plastica sono stati rilevati nel 72% dei campioni analizzati.

In pratica, in Europa per ogni 500 ml – una bottiglietta da mezzo litro – ingeriamo in media 1,9 fibre di plastica (negli USA sono 4,8). Ma le analisi effettuate da Orb hanno individuato soltanto le fibre più grandi di 2,5 micron, ma quelle di dimensioni nanometriche sono sufficientemente piccole da penetrare in cellule e tessuti, dove potrebbero causare danni ancora non stimabili.

Inoltre, non è ancora chiaro come le microplastiche siano finite nell’acqua potabile. Una fonte è costituita sicuramente dall’atmosfera, con le fibre sintetiche di abiti, tappeti e scarpe che vengono liberate nell’aria che respiriamo. Poi ci sono poi gli scarichi delle lavatrici – ogni ciclo di lavaggio rilascia nell’ambiente 700.000 fibre che sfuggono a ogni filtro, e l’erosione della pioggia.

Secondo gli esperti di microplastiche, l’impatto che questo fenomeno sta avendo sulla fauna è preoccupante. Il mondo sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40 per cento di questa massa viene usato una volta soltanto. I residui di plastica inquinano già la totalità di fiumi, laghi e oceani globali, oltre che il suolo e l’aria. Molti avranno visto le foto della plastica trovata all’interno dei pesci. Se questo è l’impatto sulla fauna, come possiamo pensare che vi sia un qualche impatto su di noi?

Esempio di plastica trovata all’interno di un pesce.

Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano. Di sicuro, le microplastiche andranno incluse fra i parametri dell’acqua potabile da monitorare per legge: l’Unione Europea impone agli Stati membri di garantire che l’acqua potabile sia libera da sostanze contaminanti.

Purtroppo, non sappiamo quale sia l’impatto sulla salute di questi materiali, per questa ragione dovremmo occuparcene immediatamente e capire quali siano i rischi reali, e nel frattempo seguire il “principio di precauzione”. E non è chiaro come porvi rimedio, poiché le microfibre sono state trovate anche nell’acqua imbottigliata (che dunque non è un’alternativa più sicura), nel miele, nello zucchero, etc. La Orb Media ha trovato fibre di plastica perfino nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa.

Non solo. Se ci sono microfibre nell’acqua potabile, evidentemente ci sono anche nei cibi preparati con essa, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. È una notizia che dovrebbe scuoterci. Ora sappiamo che una parte degli 8,3 miliardi di tonnellate di plastica prodotti dall’umanità negli ultimi 60 anni torna da noi sia attraverso la catena alimentare (pesci e animali), sia attraverso l’acqua e il cibo.

 

Riferimenti bibliografici

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